Katherine Mansfield, «Pura felicità»
Incontro di discussione su Zoom il 18 giugno alle 20:45
Buongiorno a tutte e tutti,
Pura felicità di Katherine Mansfield, pubblicato su una rivista nel 1918 e poi incluso nel volume Bliss and Other Stories del 1920, è, come abbiamo anticipato, il racconto di giugno del gruppo di lettura “Un racconto”.
Il testo in italiano e in inglese del racconto lo trovate qui.
Al piede invece il testo di un articolo di Elena Spandri in occasione della pubblicazione della raccolta Feltrinelli.
L’incontro di discussione sul racconto di Mansfield si terrà il 18 giugno alle 20:45 su Zoom.
Queste le credenziali per partecipare:
https://us06web.zoom.us/j/89443568631?pwd=Y2nW2k9UQYmtrDDusaLKtUYm66RvDW.1
ID riunione: 894 4356 8631
Codice d’accesso: 882426
Come sempre l’incontro è aperto a tutti, anche a chi non ha letto il racconto.
[Red Canna, Georgia O'Keeffe, 1923]
Katherine Mansfield - Kathleen Mansfield Murry (née Beauchamp) - morì a trentaquattro anni di tubercolosi, nel 1923.
Nel corso della sua vita, usò in un modo o nell’altro numerosi nomi diversi, pseudonimi, nomignoli corrispondenti ai suoi sé, più o meno consapevolmente incarnati: Katya, Katerina, Kissienka, Katoushka; le sue diverse personalità Maori (era nata in Nuova Zelanda nel 1888 ma lasciò il paese per non tornarci più quando aveva 19 anni) presero i nomi di Kezia, Rewa, Tui, e Maata; parlava di sé chiamandosi anche Kass, Katharina, Kathë Schonfeld, Mrs. K. Bendall, Kathë Beauchamp-Bowden, Juliet, Vere, Ariadne, Sally, Pearl, e Guy; ha pubblicato racconti, poesie, recensioni e saggi con i nomi di Lili Heron, Julian Mark, Matilda Berry, Elizabeth Stanley, the Tiger, Boris Petrovsky, K.M., e, appunto, Katherine Mansfield.
Scrisse nel diario:
«Quale sé? Uno dei tanti sé che, in realtà, sono centinaia. Con i complessi, le soppressioni, le reazioni, le vibrazioni e le riflessioni, a volte mi sembra di non essere altro che il piccolo impiegato di un albergo senza proprietario, con tutto il lavoro da fare per inserire i nomi e consegnare le chiavi agli ospiti.»
Fu soprattutto il secondo marito, John Middleton Murry, che dopo la morte di Mansfield lavorò per promuoverne l’opera.
Virginia Woolf confessò di essere invidiosa dei racconti scritti da Mansfield, affermò che non le piaceva avere una rivale così brava ma che non conosceva un’altra donna all’altezza di Mansfield con la quale parlare di scrittura in modo così pieno e profondo.
Katherine Mansfield, la forma della pienezza trafitta da lampi tragici
Prose brevi Una nuova edizione dei racconti della scrittrice neozelandese, ordinati da Sara De Simone e Nadia Fusini, secondo un criterio non più cronologico bensì tematico: «Pura felicità», da Feltrinelli
di Elena Spandri, Il Manifesto, 1 dicembre 2024
Era il 16 novembre 1919 quando, in una lettera al marito John Middleton Murry – appena diventato direttore della prestigiosa rivista letteraria The Athenaeum – Katherine Mansfield lamentava l’indifferenza della letteratura contemporanea alla Prima Guerra Mondiale appena conclusa: «Come può essere la stessa vita di prima? Non significa che la vita ora sia meno preziosa o che le “cose diurne e notturne del mondo” siano scomparse. Non sono sparite, sono intensificate, sono illuminate. Ora ci conosciamo per ciò che siamo. In un certo senso è una conoscenza tragica. È come se, pur tornando alla vita, avessimo in faccia la morte. Ma attraverso la vita. Vediamo la morte nella vita così come vediamo la morte in un fiore appena sbocciato».
Difficilmente si troverà un’altra sintesi altrettanto perspicua di quella peculiare condensazione tra il sentimento della ‘passatezza’ del passato e la percezione della sua abbagliante attualità, che ha caratterizzato il modernismo europeo. Conoscenza tragica, se messa in relazione con i traumi della guerra; eppure, simultaneamente, promessa di un reincanto del mondo che, a quell’altezza della storia, sarebbe potuto discendere soltanto dalla creazione di stili anticonvenzionali e dirompenti di arte e vita, nonché dalla sfida di sperimentare una nuova grammatica della felicità.
È proprio questa sfida, lanciata innanzitutto a se stessa, e raccolta a piene mani da eminenti contemporanei quali D.H. Lawrence e Virginia Woolf, a rendere quella di Katherine Mansfield una scrittura vibrante e sempre attuale, in quanto profondamente audace. Un’audacia che oggi non appare più tanto riconducibile alla scabrosità dei temi trattati – omosessualità, antipatriarcalismo, ipocrisia borghese –, quanto piuttosto all’ambizione di elaborare una forma letteraria vocata a celebrare quelle circostanze irripetibili nelle quali la vita si manifesta come irradiazione di un senso di pienezza che trascende ogni habitus linguistico e sociale e che, antifrasticamente, alimenta l’esperienza del tragico.
Sulla lezione di Poe e Cechov, Mansfield identifica quella forma nella short story: ovverosia nel racconto franto, impressionistico, stilizzato di cui, nel mondo anglofono dei primi anni Venti, la scrittrice neozelandese è stata la maggiore cultrice, dedicandosi a esso in modo esclusivo. Non senza profondi sensi di inferiorità nei confronti di scrittori per i quali, al contrario, la short story aveva rappresentato il laboratorio di un nuovo linguaggio romanzesco sintonizzato con la temperie postbellica – primo fra tutti James Joyce, cui la legava la comune origine periferica.
La nuova edizione italiana dei racconti di Katherine Mansfield, intitolata Pura felicità e curata da Sara De Simone e Nadia Fusini (Feltrinelli, pp. 327, € 24,00), traduce tutto il coraggio e tutta la bellezza di questa nuova grammatica, che è artistica così come esistenziale. Anziché organizzare la raccolta secondo il consueto criterio cronologico, le curatrici hanno opportunamente accorpato le storie intorno ai quattro nuclei tematici più rappresentativi dell’opera di Mansfield (Il romanzo familiare, Amiche, amanti, sorelle, Donne sole, La vita e la morte), riuscendo così a contenere il grado di frammentarietà dei singoli testi e a agevolarne una lettura più organica, basata sull’alternanza di costanti e varianti. A questo si aggiungono una introduzione e un saggio finale che offrono un inquadramento critico-biografico indispensabile per avvicinarsi a una scrittrice giunta in Italia come autrice per signore e in seguito associata all’avanguardia di Bloomsbury, ma mai arrivata al grande pubblico con tutta la forza della sua modernità, come scrive Sara De Simone.
Non c’è dubbio che una parte rilevante di questa modernità derivi da un cosmopolitismo che rifiutava tutti i valori della cultura anglocentrica e patriarcale alla quale Katherine apparteneva per nascita. Allorché, nel 1908, decide di lasciare per sempre la Nuova Zelanda per trasferirsi a Londra, dando inizio alle peregrinazioni che l’avrebbero condotta a finire i suoi giorni nella clinica di un guru russo a Fontainebleau a soli trentacinque anni, non è all’amato paese d’origine che l’inquieta ventenne sta voltando le spalle bensì alla famiglia Beauchamp, della quale arriverà a rifiutare persino il cognome, preferendo quello della nonna («Maledetta la mia famiglia…li detesto tutti cordialmente»). E non è un caso che il contrasto tra il disgusto per il milieu di provenienza e l’attaccamento alla natura lussureggiante della terra d’origine abbia ispirato alcuni dei suoi racconti migliori.
A due di essi le curatrici attribuiscono un posto di rilievo all’inizio e alla fine del volume, a sottolineare la misura in cui questo contrasto ha nutrito uno stile ispirato al sentimento di un paradiso perduto nell’esistenza fisica (funestata dalla gonorrea e dalla tubercolosi), ma riguadagnato alla memoria e alla scrittura. Preludio (dagli espliciti richiami a Milton e Wordsworth) è il racconto dell’iniziazione a un giardino delle delizie tipicamente coloniale (la nuova dimora campestre della famiglia Burnell), che soffoca le tensioni di genere sotto il rigoglio delle piante («Perché mi conservo con tanta cura? Continuerò a fare figli, Stanley continuerà a fare soldi e i bambini e i giardini diventeranno sempre più grandi, con intere flotte di aloe tra cui poter scegliere»). In La festa in giardino, il paradiso dei sensi incarnato dalle cascate di rose che decorano l’esuberante giardino tropicale della famiglia Sheridan è epifanicamente trasfigurato dall’improvviso contatto dell’adolescente Laura con la miseria, la morte e, più di tutto, l’inviolabilità dei confini sociali. E anche nel racconto del 1918 che dà il titolo alla raccolta italiana, Pura felicità, uno dei più controversi sul piano dell’interpretazione, è all’immaginario botanico che si associa l’illusione di una vita iperbolicamente perfetta e al passo coi tempi, nutrita dalla giovane padrona di casa in attesa degli ospiti: «Com’era forte il profumo delle giunchiglie nella stanza calda! Troppo forte? Oh, no. Eppure, come sopraffatta, si lasciò cadere sul divano e si premette le mani sugli occhi. Sono troppo felice – troppo felice! Mormorò».
In sintonia con i nuovi media (fotografia, cinema, moda) che negli stessi anni promuovevano il reincantamento di corpi e superfici attraverso immagini scomposte e decontestualizzate, la scrittura di Mansfield rinuncia alla visione panoramica, affidandosi all’indiretto libero, e indugia impressionisticamente sul dettaglio ambientale (luminescenze, posture, abiti, arredi, cibo e tanti animali), andando a erodere, storia dopo storia, quella sensibilità dualistica sulla quale poggiavano le innumerevoli barriere culturali contro cui la scrittrice, in perenne esilio da situazioni troppo anguste e definitorie, si era dovuta scontrare.
Profondamente ancorata alla materialità del mondo naturale, sommessamente ironica e insieme caparbiamente resistente al disincanto, questa ecopoetica avant la lettre è forse la ragione per cui i racconti di Katherine Mansfield suonano tuttora tanto schietti e commoventi.
A presto
luigi.gavazzi@gmail.com